Con Città della pianura (Cities of the Plain, 1998) volge al termine la trilogia della frontiera di Cormac McCarthy. Rispetto alle precedenti, quest’ultima opera è forse la più enigmatica e la più impegnativa, e tutta la trama sembra in costante accelerazione verso il racconto finale. La caratteristica di Città della pianura è, infatti, la separazione tra le vicende narrate lungo tutto il romanzo e il discorso finale del vagabondo. Fino alla fine, tutta la trama scorre a velocità altissima, con stile quasi fotografico, senza però essere accompagnata da lunghe riflessioni come accade invece nei precedenti romanzi della trilogia. Tuttavia, giunti alla fine, l’epilogo è dedicato a un difficile e criptico racconto, carico di allusioni, messaggi e simbologie.

Billy Parham e John Grady Cole, i protagonisti dei precedenti romanzi, lavorano assieme nel ranch di Mac McGovern, in Texas, di poco distante dal confine con il Messico. Con i colleghi e amici Troy e JC, passano le serate tra un bordello e l’altro, finché John Grady non si innamora di una prostituta malata di epilessia, dando così il via a una tragica storia dove le uniche possibilità contemplate sono la vendetta e l’omicidio, in uno scenario in cui l’idea di un futuro di gioia si scontra con la coercizione di un cinico pappone, unico e vero “custode” della ragazza che fa prostituire.

La trama che ci regala McCarthy è forse meno originale rispetto a quella di Cavalli selvaggi e di Oltre il confine, eppure sembra che questo sia dovuto all’epilogo. È come se tutta la trilogia, specialmente Città della pianura, fosse una preparazione al racconto finale, che è un recupero e un’estremizzazione delle tematiche e delle riflessioni che abbiamo incontrato precedentemente.

Innanzitutto, lo spazio e il tempo in cui avviene l’epilogo sono interessanti. Billy Parham, in seguito alla drammatica conclusione della storia di John Grady Cole, abbandona il ranch di Mac McGovern e si mette in viaggio, “consumando i giorni del mondo. Gli anni del mondo. Finché non fu vecchio”.

In pochissime battute McCarthy fa trascorrere tutta la vita di Billy Parham. Non sappiamo nulla: né cosa ha visto, né cosa ha fatto, né chi ha incontrato. Fino a quando, lungo i margini di un’autostrada nell’Arizona, non fa la conoscenza di un vagabondo. Questo salto spazio-temporale all’interno della narrazione sembrerebbe evidenziare ancora di più la necessità di arrivare a questo punto, compimento dell’intera trilogia. E questo termine consiste nel racconto di un sogno dentro al sogno, dove prendono vita le esperienze di un viaggiatore che, addormentandosi su una roccia dedita ad antichi sacrifici, sogna di incontrare un’antica tribù che finirà per assassinarlo nei pressi della pietra sulla quale aveva deciso di bivaccare.

L’intricatissima narrazione permette al lettore di comprendere le tematiche che stanno più a cuore a McCarthy, qui rese esplicite ed evidenti seppur gravate da una dimensione metafisica e, a tratti, mitica, anche se forse è scorretto definire l’opera di McCarthy “gravata” da un senso metafisico, perché la ricchezza del suo mondo risiede nel costante tentativo di spingersi oltre i confini, siano essi geografici o umani. Ma tra tutti i confini che i protagonisti della trilogia hanno dovuto varcare – confini tra gli Stati, confini con la legge, confini esistenziali – ce ne sono alcuni che incatenano l’uomo alla trama infinita della storia. Noi siamo confinati in uno strettissimo spazio d’azione, dove il passato, assieme al mondo circostante, delimita la libertà dell’uomo a tal punto da renderla impotente. La realtà è una; è inevitabile. Ogni nostra azione è già priva delle numerose possibilità che immaginiamo: l’unica azione possibile è quella che è già accaduta, perché il peso assoluto della storia e del tempo schiaccia ogni uomo nell’impossibilità di crearsi un mondo: “questa tua vita alla quale dai tanta importanza”, afferma il senzatetto, “non è opera tua, qualunque sia il nome che decidi di darle. La sua forma è stata imposta al vuoto fin dall’inizio del mondo, e tutto ciò che si può dire di come sarebbero potute andare altrimenti le cose è senza senso, perché non si dà nessun altrimenti.”

Non esiste libertà che possa salvare l’uomo dall’evidente coercizione del mondo. Tutto si stringe in un’unica, infinita dimensione presente, dove il tempo congela ogni realtà alternativa, ogni azione probabile e differente; c’è spazio solo per ciò che accade; “il fatto che possiamo immaginare storie alternative non significa nulla”.

Quello che McCarthy ci propone non è tanto una negazione del libero arbitrio, quanto l’idea che la vita e il mondo sfuggano costantemente alla nostra capacità di creazione e controllo. Da un lato, infatti, tutto ciò che viviamo diventa già ricordo, e il pensiero può comprendere la realtà soltanto quando questa è già passata. Dall’altro lato, il mondo si è talmente deformato da rendere inefficace la nostra capacità di descriverlo. Durante il racconto del suo sogno, il narratore domanda a Billy Parham:

Cos’è la vita? Puoi vederla? Svanisce nel momento stesso in cui appare. Momento per momento. E alla fine svanisce e non riappare più. Quando guardi il mondo, c’è un punto nel tempo in cui ciò che è visto diventa ciò che è ricordato? Come separare l’istante vissuto dal suo ricordo? È questo, ciò che non abbiamo modo di mostrare a noi stessi.

Noi non possiamo conoscere il mondo nel suo presente: ciò che abbiamo è l’istantaneo ritirarsi del presente nel passato, l’immediato cristallizzarsi della vita nel ricordo. Tutto è figura, immagine (proprio come in Oltre il confine, quando si afferma che il mondo è immagine visiva). Il vagabondo confida a Parham di aver provato a disegnare la propria vita su una mappa. C’è una bellissima descrizione in cui viene paragonata la vita presente, l’esistenza nel suo svolgimento, con la trascrizione fisica e figurativa di questo movimento. Eppure, tracciare la propria vita è l’impossibilità per eccellenza: essa non è mai compiuta, non riusciamo a contemplarla nel suo insieme. In un certo senso, l’esistenza è un discontinuo susseguirsi di frammenti: anche mettendoli assieme, il quadro che si crea è incompleto, disgregato; la vita non è mai rappresentabile.

McCarthy eredita così una delle tematiche principali dell’arte novecentesca, anzi, forse il perno attorno al quale ruota il pensiero dell’uomo lungo tutto il XX secolo: e cioè che il mondo si è infranto, e il legame che ci univa ad esso si è sciolto. Non c’è più descrizione possibile, non c’è più rappresentazione adeguata, la realtà sfugge ad ogni tentativo di comprensione; il rapporto uomo-mondo è distrutto:

La trama delle cose rivelava un intoppo. Quei cieli, nelle cui forme gli uomini scorgono ragionevoli destini affini al proprio, ora sembravano pulsare di un’energia senza freni. Come se, nel loro svolgersi, le cose avessero smarrito le proprie connessioni, il proprio calendario.

Con la trilogia di McCarthy scopriamo che quella dissoluzione del mondo che ha caratterizzato tutto il novecento è ancora evidente, ancora soffocante. La realtà che ci circonda va strutturandosi secondo una lingua sconosciuta che il pensiero non può decifrare. Ma sarebbe meglio dire che la realtà non ha nemmeno più una struttura, che è senza forma, senza scopo, incomprensibile, “irraggiungibile a ogni possibile descrizione”. Le parole del senzatetto sono definitive:

Credo che egli abbia visto il mondo disfarsi ai suoi piedi. Le procedure che aveva adottato per compiere il suo viaggio ora gli sembravano un’eco della morte delle cose. Credo che egli abbia visto l’avvento di una terribile oscurità.

È difficile non riconoscere in queste parole una somiglianza con il finale di Cuore di tenebra. Quasi un secolo separa il capolavoro di Conrad da Città della pianura, un secolo dominato dall’oscurità di un mondo disgregato e dall’impossibilità per il nostro linguaggio di descriverlo e spiegarlo. Con La strada, McCarthy darà ancora più spazio alla rappresentazione letteraria di un mondo veramente tenebroso. L’abissale distanza che separa l’uomo dalla realtà che lo circonda è più concreta che mai; pensiero e realtà non combaciano più; tutta la letteratura del novecento cerca di esprimere questa tragedia, che è la tragedia dell’ultimo secolo, e l’opera di McCarthy dimostra che essa è più attuale che mai. Nonostante molti credano ancora che il novecento letterario sia volto al termine.

Marcello De Blasio / Città della pianura, C. McCarthy, Einaudi, Torino, 1999, 334 pp.